Abbas

Irandiario 1971-2005 di Abbas
Casa editrice:il Saggiatore
Fonte.www.saggiatore.it
Fotografo, membro dell’agenzia Magnum Photos, Abbas è nato in Iran. Trapiantato a Parigi, dal 1970 si è occupato di guerre, rivoluzioni e grandi movimenti sociali nel Sud del mondo. Ha pubblicato Iran, la révolution confisquée (1980), Return to Mexico (1992), Allah O Akbar (1994), Voyage en Chrétientés (2000), Viaggio negli Islam del mondo (2002), Abbas (nella collana “I grandi fotografi” Hachette, 2005), Sur la route des esprits (2005).

Abbas è un grande narratore. Le sue trecento fotografie raccontano trentacinque anni di una nazione divisa tra l’ispirazione a un passato fortemente mistico e l’aspirazione alla modernità. Le opere d’arte; i luoghi di culto; il Re dei Re e la sua corte; le fabbriche; i primi sussulti della ribellione; la Rivoluzione e i suoi morti; i processi e la morgue di Teheran. E poi una gara di culturismo; i mercati; un combattimento di karate col velo; un ritratto inconsueto del regista Kiarostami. Gli scatti di Abbas catturano ogni angolo del Pianeta Iran, riescono nella delicata missione di informare senza retorica né manierismi, di sedurre senza giocare la carta della brutalità in tempi brutali. Lapidario, sferzante, un testo in prima persona fa da contrappunto alle immagini in questo diario che soddisfa il nostro desiderio urgente di comprendere. Diario di una terra violenta e dolce, che può essere guardato e letto come una requisitoria.

Estratto dal primo capitolo

RIVOLUZIONI

Risalire i miei cliché, questa memoria spietata del fotografo, come si risale un fiume, rileggere i miei taccuini di viaggio? Ma il fiume è scorso mentre i miei cliché sono fissi per sempre, immagini sospese nel tempo. Le parole si sono smussate. Riscritto a piacere, il verbo non è mai fisso, ma la foto? Posso solo modificare la scelta e le sequenze, mia vera scrittura fotografica.

1967… Teheran è occidentale per struttura, asiatica per aspetto; la città lascia un’impressione d’incompiutezza.

… E se l’ospitalità persiana è sempre elaboratissima, deve essere un po’ ipocrita per esser raffinata.

I venditori ambulanti che, fin dall’alba, risvegliano il quartiere non urlano i loro messaggi, ma li cantano con voce calda e languida, una voce fatta per l’omelia e l’epopea.

L’Iran è il paradiso degli affaristi, non degli uomini d’affari.

Rivoluzione bianca, armata di sapere, riforma agraria… non è il vocabolario abituale d’una monarchia assoluta.

Un film sovietico che parla della vita di una commissaria politica è doppiato in farsì in modo che la parola «comunista» non venga pronunciata neppure una volta.

1971… Intervisto a lungo lo scià nel suo palazzo di Niavaran.

«Nel nostro paese abbiamo fatto una rivoluzione che ha cambiato l’assetto sociale. Perché dovrebbe esserci malessere? Stia pur certo che questi agitatori non lascerebbero sussistere alcuna libertà. Sono teleguidati dall’estero… gli aiutocuochi dell’esercito imperiale dovrebbero bastare per tenerli a bada.

«Abbiamo fatto mozzare un bel po’ di teste per garantire il successo della nostra rivoluzione. Altrimenti niente può essere serio e duraturo.

«Sono un idealista e un pragmatico; idealista quando si tratta della filosofia della rivoluzione; pragmatico perché, se constatassi che un aspetto della rivoluzione è diventato desueto, non esiterei a modificarlo.

«Il mio posto nella storia? Vede, noi non abbiamo girato una sola pagina ma tante pagine tutte insieme, abbiamo fatto tante di quelle cose tutte insieme: per esempio, la trasformazione dei rapporti contadini-proprietari che non mutavano da duemila anni.»

Al momento di congedarmi, lo scià mi dice: «Spero che la prossima volta parleremo in farsì». Non ci fu una prossima volta. Solo occasioni per fotografarlo.

1977… Mi piacerebbe fotografare l’Iran in trasformazione attraverso la vita di dodici iraniani, scelti per la diversità delle loro esistenze: il pittore alla moda Qasem, i cui genitori sono modesti impiegati del Nord; l’ingegnere petrolifero Reza, che maneggia quotidianamente la tecnologia più avanzata ma usa il pallottoliere quando, alla luce di una lampada a petrolio, fa i conti coi mezzadri che lavorano sulle terre che la riforma agraria dello scià non ha confiscato ai suoi genitori; il contadino dell’Azerbaigian Askar, che lavora nel negozio di parrucchiere più frequentato di Teheran. Immagino un libro concepito a mo’ di cerchio, dove ogni personaggio fotografato condurrebbe al successivo. Ma è arrivata la rivoluzione e, per fotografare l’Iran, basterebbe scendere in strada. Nel 2000, Qasem vive in esilio a Parigi e Reza lavora ad Abu Dhabi. Quanto ad Askar… (pp. 22-25).
Il lutto dell’ashura mi sorprende a Bandar-Abbas, da dove devo raggiungere la flotta imperiale in manovra nel Golfo Persico. Conservo dall’infanzia qualche immagine indelebile di catene che lacerano spalle, petti battuti ritmicamente, sangue che scorre su crani squarciati coi coltellacci, ma col tempo queste immagini sono diventate molto sfocate. Qui, il misticismo sciita che si è sovrapposto all’oscurantismo del paese profondo mi scuote, mi chiama in causa: e se fosse questo l’Iran?

Cerimonia del salaam al palazzo di Golestan per festeggiare il compleanno dello scià. Questo piccolo mondo gallonato, decorato, in redingote preme per essere in prima fila; i militari si fanno annunciare dal tintinnio delle loro spade; le teste si girano via via che Sua Maestà percorre la prima fila. Lo scià chiede ai deputati: «Ma quanti siete adesso?» e scherza con i vecchi ministri: «Vedo che il vostro numero aumenta».

Aspettavo i militari e il loro colpo di Stato; invece il potere l’hanno preso i mullah.

La direttrice della galleria di Teheran dove espongo le foto che ho scattato in giro per il mondo mi consiglia di eliminare quella dello scià seduto davanti ai suoi cortigiani in nero. «Non piacerebbe alla savak, la polizia politica, e “loro” t’impedirebbero di lavorare in Iran» mi avvisa. Due anni dopo, uno degli studenti rivoluzionari che tengono in ostaggio i diplomatici americani m’informa: «Avevo molto apprezzato la tua mostra, ma pensavo che tu fossi favorevole allo scià, visto che avevi incluso la sua foto».

Un senatore si chiede su un giornale a cosa serva un partito unico – il Rastakhiz instaurato dallo scià – e tutto l’Iran si chiede quale segreto disegno abbia spinto il senatore a scrivere e il giornale a pubblicare… chi li manipola?

8 settembre 1978… l’esercito spara sulla folla dei manifestanti, che probabilmente ignorava che proprio quella mattina era stata instaurata la legge marziale. Prendo il primo aereo per Teheran. Fin dall’aeroporto è evidente che è scattata una nuova tappa nell’escalation rivoluzionaria: si parla di duemila morti. È il Venerdì nero. Fa buio, e a ogni incrocio ci sono soldati che s’inginocchiano, puntano fucili e baionette verso il taxi e urlano «Ist!» (Alt!). Sembra di essere in un brutto film. In albergo, l’impiegata della reception, di solito tanto ossequiosa nei confronti delle autorità, dà libero sfogo al suo odio per lo scià, la sua famiglia e i suoi ministri: «Tutti ladri!» sbotta. Decisamente, le cose sono cambiate…

All’obitorio del cimitero Behesht Zahra – ci tornerò spesso – giacciono a terra una cinquantina di corpi. Bisogna lavorare alla svelta per non attirare l’attenzione – sempre la savak, che si è infiltrata nei nostri cervelli. Ma per le famiglie delle vittime la paura non vale più; gridano il proprio odio per lo scià e, non avendo alcuna fiducia nella stampa iraniana, mi supplicano di dire la verità. Quanti morti ieri?
«Cinquemila!»
«Ma no, diecimila!»
«Diecimila? Ma scherziamo! Almeno due milioni!»
Iran, paese delle Mille e una notte. Il culto del martire comincia. Dopo aver indagato sui luoghi del massacro, stimo una cifra tra i cento e i trecento.

Sulle tombe, i chador neri delle donne volteggiano nella polvere d’Asia.