Chador
L’IRAN NEL MIRINO di Lilli Gruber
Giornalista, parlamentare europea, membro della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, membro della Commissione per gli affari esteri. Presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo, membro della delegazione per le relazioni con l'Iran, vicepresidente dell'Intergruppo Stampa, Comunicazione e Libertà.
fonte.www.lilligruber.net


È ancora presto e a Parigi la giornata si annuncia splendida. Il vento ha spazzato via il grigio del cielo lasciando che il sole primaverile entrasse nel tranquillo patio sul quale si affacciano le nostre finestre. Dietro le tende tirate, il mondo si sveglia. Ho ascoltato i primi rassicuranti rumori della giornata: Fernanda, la portinaia portoghese, che riempie d’acqua il suo secchio per tirare a lucido il selciato del cortile, le notizie del giornale radio che mio marito Jacques sente in sordina, ancora mezzo addormentato, i piccioni che si agitano sulle grondaie. Mi sono alzata, vestita e sono andata di corsa a comprare i giornali in piazza del Trocadéro.


Quando sono rientrata, sbattendo la porta dietro di me, ho detto a Jacques: «Andiamo in Iran!». Mi ha guardato stupito. Da diverso tempo parlavamo di questo viaggio, ma da lì a fare le valigie... «Che cosa ti ha fatto decidere?» mi ha chiesto. «Un pain aux raisins !» ho risposto, scoppiando a ridere. Sheila è arrivata mentre Chez Carette, la sala da tè in piazza del Trocadéro, si riempiva dei suoi clienti abituali. È un posto un po’ all’antica, dove le cameriere, in divisa nera e grembiule bianco, ti chiedono notizie della famiglia.
Servono il caffè in piccole caffettiere argentate. Nel seminterrato, in un laboratorio che immagino segretissimo, i pasticcieri realizzano macarons di tutti i colori, i migliori di Parigi.

Stavo sorseggiando un tè verde mentre leggevo i giornali seduta al tavolo. Il piazzale del Palais de Chaillot era inondato di sole e formava come uno scrigno di marmo bianco intorno alla Torre Eiffel che si stagliava in un cielo di un azzurro intenso. Quando è bel tempo, Parigi è la città più bella del mondo. Ma capita così di rado che non potrei nemmeno pensare di rinunciare alla luce di Roma.

Con una giacca Chanel rosa e un paio di jeans Sheila, che non conoscevo ancora, mi è apparsa nella sua bella figura di cinquantenne dai capelli neri e gli occhi scuri. Si è seduta accanto a me e ha ordinato una cioccolata e un dolce.

Mi sono immersa nella lettura del «Herald Tribune». In prima pagina c’era la foto di Ali Hashemi Rafsanjani seduto in poltrona col volto serio. Sotto il turbante bianco, i tratti decisi, i baffetti grigi e la fronte corrucciata gli danno un’aria inflessibile da generalissimo. In questa primavera del 2005, Rafsanjani è candidato alle elezioni presidenziali che si terranno in Iran il 17 giugno. Uno scrutinio considerato dai 70 milioni di abitanti e dal resto del mondo una tappa cruciale. Tutti lo ritengono il vincitore annunciato. Un «riformista» in testa all’inizio della campagna elettorale titola il quotidiano, che riprende un articolo del «New York Times». Rafsanjani, in realtà un religioso conservatore, generalmente parla poco alla stampa estera. Ma recentemente ha rilasciato una serie di interviste ad alcuni giornali stranieri per mettere a punto la sua immagine di uomo provvidenziale, di unica alternativa possibile in una nazione spaccata tra conservatori e riformisti.

Ex presidente della Repubblica islamica, ex presidente del Parlamento, attuale presidente del Consiglio di Discernimento, a settant’anni è uno dei personaggi più potenti dell’Iran. Forse addirittura il più potente, anche se l’intero sistema politico iraniano è sottoposto al controllo della Guida Suprema, l’autorità istituita dall’ayatollah Khomeini quando prese il potere con la Rivoluzione islamica del 1979. Fin dalla morte dell’Imam avvenuta dieci anni più tardi, questo ruolo è stato rivestito da Ali Khamenei che si trova quindi a essere la massima carica politica e religiosa del Paese. Ma Rafsanjani, soprannominato la Sfinge, si trova al centro di una tale rete di relazioni, di appoggi manifesti od occulti, di dinamiche interne o esterne, che è impossibile prescindere da lui.
Ha sempre dato di sé l’immagine del politico pragmatico, più interessato a far arricchire l’Iran piuttosto che a catapultarlo in avventure estreme. Ciò nonostante è uno dei pilastri della Rivoluzione e, nella sua intervista con il giornalista del «New York Times», accusa gli Stati Uniti di essere antidemocratici.

Lo fa sicuramente per contrastare l’idea che sia lui l’unico esponente politico capace di riannodare il dialogo con il «Grande Satana», un ruolo sempre difficile da sostenere avanti alle masse iraniane. Come fa notare il cronista del quotidiano americano, anche Rafsanjani si veste dai migliori sarti: l’abito di mullah che indossa è stato confezionato su misura.
È un uomo straordinariamente ricco. E straordinariamente corrotto, assicurano i suoi nemici, che sono tanti. Sarà questo il suo tallone di Achille? I tavoli rotondi di Chez Carette, con i loro piani di marmo e le gambe in legno, sono particolarmente scomodi: non so mai come mettermi, tendo sempre a sedermi di traverso come se presentassi ancora il Tg. Avverto che la mia vicina è interessata alla mia lettura, cerca un pretesto per una conversazione. Mi volto verso di lei. Le rivolgo la prima domanda che mi viene in mente: le chiedo il nome del dolce che sta spilluzzicando con discrezione.
«Un pain aux raisins» mi risponde con un sorriso. Poi prosegue: «Le interessa l’Iran? Io sono iraniana. Mi chiamo Sheila». Così cominciamo a parlare. Come se ci conoscessimo da sempre.
Le racconto che sto pensando di scrivere un nuovo libro, ma che sono ancora indecisa. In I miei giorni a Baghdad avevo parlato dell’evento senza dubbio più importante in questo primo scorcio di secolo: la guerra scatenata da George W. Bush in Iraq; nel secondo libro, L’altro Islam, avevo affrontato la dinamica messa in moto da quel conflitto: l’affermazione politica, in Iraq e nel mondo arabo, degli sciiti. Una minoranza ribelle del 15 per cento all’interno della comunità musulmana composta in gran parte di sunniti. Un’eventuale terza puntata dovrebbe proseguire questo viaggio verso est, in quel Medio Oriente che ci affascina ma che non riusciamo a penetrare fino in fondo. È per questo che da mesi coltivo l’idea di esplorare l’Iran, formidabile e misteriosa teocrazia sciita, ricca di petrolio e di gas naturale, ai confini dell’Asia, del mondo arabo e dell’Europa orientale. Accusata da Washington di essere il principale Paese sostenitore del terrorismo internazionale e sospettata di volersi dotare della bomba atomica. Denunciata per le violazioni dei diritti umani e per le discriminazioni nei confronti delle donne. Ma anche grande nazione fiera della sua storia millenaria, della sua cultura straordinariamente complessa. L’Iran impregnato di tradizioni ma animato dal desiderio di modernità.

L’Iran Paese del chador e delle donne che votano a quindici anni. L’Iran Paese dei segreti. Un laboratorio dove oggi si sperimenta la compatibilità tra Islam e democrazia. Nel 2005 una domanda ossessiona le capitali occidentali, da Washington a Londra, da Parigi a Berlino: cosa bisogna fare con l’Iran? Si deve provocare una resa dei conti? O si deve accompagnare un’evoluzione più graduale? Sheila mi ascolta educatamente, ma percepisco in lei una sorta di impazienza e così le lascio la parola. «Tutti in Iran le diranno: “La Rivoluzione non c’è mai stata veramente”» esordisce. «Durante il regno dello Scià la gente era felice. La disoccupazione stava calando. Tutti i bambini andavano a scuola. Anche le persone meno ricche potevano permettersi due auto.» Faccio fatica a nascondere la mia sorpresa. La storia della Rivoluzione islamica del 1979, delle sue cause economiche e sociali, del suo radicamento nelle frustrazioni della maggiochador ranza degli iraniani, è stata scritta da storici che non possono essere accusati di simpatie per gli ayatollah al potere a Teheran. «Sono stati gli americani e gli inglesi a rovesciare lo Scià. Volevano sbarazzarsi di lui per mantenere il controllo sul petrolio. Sono stati loro a far arrivare al potere Khomeini. Sotto la barba dei mullah si legge Made in Britain!» Gli iraniani hanno un gusto smodato per i complotti. Per loro la realtà non è mai quella che appare. Persino la franchezza non è altro che un modo sottile per dissimulare disegni oscuri. Cadere nella trappola della chiarezza è una dimostrazione di ingenuità. Non oso dunque contraddire Sheila che sembra così sicura di sé e che vedrebbe in me una povera sempliciotta, il cui candore non può che intenerire. «Per quanto riguarda la bomba atomica tutti gli iraniani sono d’accordo: la vogliono, e anch’io la voglio.» Sheila non bada alle contraddizioni, ma spiega meglio il senso delle sue parole: «Perché non dovremmo avere il diritto di diventare una potenza nucleare? Gli israeliani hanno la bomba, i pakistani hanno la bomba. Perché noi no? I mullah sono molto bravi a negoziare. Prenderanno tempo. E aspetteranno che in America i repubblicani vengano sostituiti dai democratici prima di annunciare le loro vere intenzioni». La mia nuova amica è vivace e affascinante. La sua vita è una sintesi di venticinque anni di storia iraniana. Il marito è medico e lavora per una società di assicurazioni negli Stati Uniti. Hanno due figli grandi, due maschi, che non sono mai andati in Iran, ma che comunque ha voluto imparassero la sua lingua madre, il farsi. Suo padre era un industriale e suo suocero uno dei medici dello Scià. Nemmeno lei ha mai più rimesso piede nel Paese da quando lo ha lasciato nel 1979. E non è sicura di voler correre il rischio di tornarci, anche se il regime ha cambiato profondamente il suo atteggiamento nei confronti degli esuli: «Non mi piacerebbe finire in prigione» mi dice senza conoscere le ragioni che potrebbero portarcela. Sheila se ne va. Ha appuntamento dal parrucchiere. La sua nostalgia rappresenta una dimensione imprescindibile della realtà iraniana o è solo un sentimento isolato, alimentato dal rimpianto per una vita che avrebbe potuto essere diversa? Solo in seguito mi accorgerò che tutti gli iraniani hanno un eccezionale desiderio di raccontare agli stranieri il loro Paese, la sua storia, la sua grandezza, i piani occulti delle grandi potenze.
Chiudo il giornale. Nonostante i vari viaggi sempre troppo brevi che avevo fatto in terra persiana, non ne sapevo abbastanza. Naturalmente mi tornavano in mente i ricordi, ma erano sempre brandelli di storie, immagini confuse del passato: lo Scià, le feste a Persepoli, la Rivoluzione, la guerra con l’Iraq, i mullah al potere... Ma cosa sapevo delle vere dinamiche di questo grande Paese? Che cosa rimane dell’eredità di Khomeini nell’Iran di oggi? Che cosa resta della Rivoluzione che ha fatto sperare in un futuro radioso? Qual è il lascito della guerra con l’Iraq e della forza nata da quel sacrificio? I giovani, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, non hanno conosciuto né l’una né l’altra. Chi decide a Teheran e cosa chiedono gli iraniani? La voglia di scrivere un libro sull’Iran era già viva fin dal mio viaggio nell’arcipelago sciita che, in maniera quasi naturale, mi aveva portato dall’Iraq nell’antica Persia. Religione di Stato dal XVI secolo, lo sciismo ha ispirato la Rivoluzione che ha cambiato il volto del mondo e che ancora oggi dopo ventisei anni tenta di definire un nuovo modello politico ed economico.
Avevo già contattato alcuni diplomatici iraniani a Roma e a Bruxelles per ottenere un visto, e ben presto era arrivato il via libera. Ero pronta e Jacques aveva promesso di accompagnarmi. Ma è stato il breve incontro con Sheila a spingermi a prendere la decisione finale. Sono curiosa e voglio andare a vedere. Ma soprattutto ad ascoltare chi mi aiuterà a sollevare un angolo del velo.

Nell’affascinante scoperta di una realtà complessa dovrò resistere alla seduzione delle verità imperfette e delle mezze bugie. L’Iraq è un buon esempio di quanto sia pericoloso semplificare. La tragedia di un dopoguerra sanguinosissimo che non conosce tregua era prevedibile. Basta dare una scorsa a I miei giorni a Baghdad. Sono stata considerata un uccello del malaugurio. Accusata di essere antiamericana, antisraeliana, di essere accecata da non so quale ideologia. Oggi, quanti iracheni e quanti americani dovranno ancora morire prima che responsabili del grande imbroglio facciano un passo indietro?

Hanno mentito per invadere l’Iraq, mentono per rimanervi. Agitano lo spauracchio di una guerra civile mentre la guerra vera è ancora là a mietere decine di migliaia di vittime.

Promettono una democrazia ma hanno sperato a lungo di poter imporre un regime ai loro ordini. Se ne andranno cantando vittoria lasciandosi dietro un Paese distrutto in preda alla legge dei clan e delle moschee. L’Iran svolge un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dell’Iraq. Solo una forte cooperazione tra le due maggiori comunità sciite della regione potrà garantire la ricostruzione e la pacificazione politica della martoriata Terra tra il Tigri e l’Eufrate. L’intesa si estenderà fino al Libano, dove Hezbollah è uscito rafforzato dalla partenza dei siriani. Se gli Stati Uniti non saranno in grado di negoziare con questo «arco sciita» lasceranno la regione in un bagno di sangue.

Se avranno l’intelligenza di aprire un dialogo saranno capaci di svolgere il loro ruolo di grande potenza, disposta a proteggere i propri interessi e quelli di Israele nel rispetto degli interessi altrui. Per questo motivo sarebbe auspicabile ristabilire i contatti con Teheran, rinunciare alle minacce e accettare l’indipendenza e lo status di potenza regionale dell’Iran. Gli Stati Uniti, per quanto onnipotenti, non possono fermare la storia, e quando intervengono per cambiarne il corso innescano spesso immani tragedie. Il 2005 è cominciato bruscamente per il regime degli ayatollah finito nel mirino dei signori di Washington. In seguito al braccio di ferro nucleare, alle accuse di appoggiare i terroristi, ai sospetti di fare il doppio gioco in Iraq, il regime di Teheran è il candidato perfetto per un cambiamento forzato, come piace ai neoconservatori americani. L’esecuzione è stata già programmata? Nei primi mesi dell’anno la tensione cresce sempre di più.

In una limpida notte di fine maggio mi ritrovo insieme a Jacques su un aereo dell’Alitalia in volo verso l’Iran. Mi torna in mente una poesia persiana che è rimasta scolpita nella mia memoria, Un elefante al buio. L’autore è il famoso Jalal al-Din Muhammad Rumi. È la storia di cinque persone che non hanno mai visto un elefante e che entrano in un recinto immerso nelle tenebre. Ognuno appoggia la mano sull’animale e descrive quello che pensa di avere davanti: «è un narghilè» dice quello che tocca la proboscide, «è un grande ventaglio» afferma quello che stringe l’orecchio, «è un trono di pelle» dichiara quello che tocca la groppa. E via di seguito, tutti dicono la loro. I cinque personaggi sfiorano un punto diverso dell’elefante, e ognuno crede di avere capito. Il palmo della mano e la punta delle dita che si agitano al buio sono il loro unico contatto con la realtà. La poesia si conclude con una morale semplice: «Se fossimo entrati tutti insieme con una candela in mano, avremmo potuto vederlo, questo elefante».

Sono partita con la candela in mano per scoprire l’Iran. Ho voluto condividere quello che ho visto e ho cercato di capire. Altri lo hanno fatto prima di me e lo faranno dopo di me. Ma solo se ci proveremo tutti insieme riusciremo a comprendere meglio gli «elefanti al buio» e ad addomesticare le nostre paure. Questo libro è stato realizzato grazie all’aiuto determinante di mio marito Jacques Charmelot, profondo conoscitore del Medio Oriente, compagno di viaggio impareggiabile, consigliere insostituibile e generoso. Un affettuoso grazie a Taraneh Yalda, un’amica ma soprattutto un’ospite squisita e guida impagabile nell’esplorazione del labirinto persiano. Un particolare riconoscimento va a Paolo Zaninoni, Alessandra Mascaretti e Massimo Birattari. Un grazie, infine, a Diego Pavesi, Alessandra Mele, Cristiana Latini, Clara Ferrario e Michela Cosili.