Il mio Iran - una vita di rivoluzione e speranza di Shirin Ebadi e Azadeh Moaveni
edizione: Sperling & kupfer
La caduta del governo di Mossadeq nel 1953, la salita al potere del giovane Reza Pahlevi e la sua fuga nel '79, il ritorno dell'ayatollah Khomeini, la guerra con l'Iraq, l'arrivo al governo di Khatami e le rivolte studentesche del 1999. Più di cinquant'anni di storia dell'Iran passano nelle pagine di questo libro che racconta la vita di una donna in prima linea, giudice sotto lo scià, destituita da Khomeini perchè donna, avvocata per la difesa dei diritti civili, premio Nobel per la pace nel 2003.


Di famiglia borghese Shirin Ebadi frequenta negli anni Sessanta la facoltà di legge, sogna di diventare giudice e lo diventa all'inizio degli anni Settanta. “Era l'epoca della minigonna - racconta evocando immagini oggi impensabili - e all'università, come un pò dappertutto in città le giovani alla moda scoprivano le gambe, in omaggio a Twiggy, l'icona di allora”. Erano i tempi delle manifestazioni studentesche che impensierivano tanto la Savak, la polizia segreta dello scià.La giovane Shirin partecipava ai movimenti di protesta. “Per eludere i tentacoli della Savak ricorda - gli studenti fingevano di manifestare per le tasse, anche se in realtà volevano gridare qualcosa come 'Smettetela di scialacquare le ricchezze del nostro sottosuolo per comprare i caccia americani!'. A fine anni Settanta, da giudice e da donna senza immaginare cosa questo comportasse, si trova a simpatizzare come la maggioranza degli iraniani con le voci che acclamavano l'ayatollah Khomeini come guida. Fra gli oppositori dello scià c'erano anche nazionalisti laici, socialisti e marxisti, “ma la voce del clero era la piùforte: attraverso la rete di moschee sparse su tutto il territorio nazionale era quello in Iran il mezzo di comunicazione più potente”. Dopo il rientro dall'esilio di Parigi di Khomeini, Shirin pensava di aver vinto anche lei quella rivoluzione. “Ci volle meno di un mese per comprendere che, in realtà, avevo contribuito spontaneamente e con entusiasmo alla mia stessa fine”. Di lì a un anno, dopo vari tentativi di farla dimettere spontaneamente , Shirin Ebadi fu destituita dalla sua carica di giudice e venne retrocessa a impiegata e nel giro di poco tempo finisce per essere segretaria dello stesso tribunale che aveva presieduto.
Da allora la sua vita pubblica e professionale non sarà più la stessa e appena può lascia il lavoro e inizia a fare l'avvocata, quando esce impara a non dimenticare lo hejab a casa e diventa madre di due bambine. Un giorno il fratello più giovane di suo marito viene arrestato, torturato e poi ucciso perchè distribuiva volantini del Mek, aveva 17 anni. La sua morte cambia la vita di Shirin che inizia da avvocata la sua battaglia in difesa dei diritti civili. Sono casi difficili nei quali difende donne, spesso bambine, scivolate agli ultimi gradini della scala sociale, prigionieri politici e le famiglie di intellettuali uccisi in modo misterioso. Nel 2000, esaminando alcuni dossier messi a disposizione dal governo, scopre che il suo nome era nella lista degli intellettuali da uccidere, ma questo non le impedisce di continuare la sua battaglia. Nel 2003 riceve il premio Nobel. Ora Shirin Ebadi vive sotto scorta, il governo di Theran le ha dato 24 guardie del corpo perchè dopo il Nobel le minacce alla sua vita sono aumentate, ma lei non vuole lasciare il suo paese perchè è convinta che una trasformazione pacifica dell'Iran vale il prezzo di poter essere vittima di questo cambiamento.
Islam: spegnete i fuochi di guerra
«I capi di Stato discutono tra loro a porte chiuse, invece il dialogo va portato tra la gente: quando si combatte sono i suoi figli a morire, per questo i popoli devono parlarsi»
Da Roma Paola Springhetti (Avvenire, 20.09.2006)
«Il Papa ha spiegato chiaramente che non intendeva offendere né Maometto né l’islam. Per me l’equivoco è stato chiarito, la storia finisce qui. Anzi, credo sia un dovere di voi giornalisti contribuire a spegnere questi fuochi». Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, non ha voglia di parlare dell’equivoco che ha causato focose reazioni in molti Paesi musulmani. È in Italia per presentare il libro in cui racconta la sua autobiografia di donna magistrato, cui la rivoluzione di Khomeini ha tolto il lavoro e i diritti, ma che non per questo si è rassegnata, cominciando anzi una battaglia per i diritti delle persone, e in particolare delle donne, nella convinzione che, se correttamente interpretato, il Corano non è affatto inconciliabile con la libertà, la pace e il rispetto dei diritti. Ed è di questo che ha voglia di parlare, della battaglia non ha mai abbandonato nonostante le minacce di morte e la prigione, e della convinzione che un dialogo tra Occidente e Oriente sia possibile, nonostante le difficoltà e le incomprensioni. «I capi di Stato parlano tra loro a porte chiuse, così come i capi religiosi. Invece il dialogo va portato tra la gente, e il miglior posto per farlo è l’università».
Quella di Teheran è sempre stata un luogo di fermenti culturali, ma a parte gli studenti, che periodicamente scendono in piazza a manifestare, c’è una società civile pronta al dialogo?
«Il popolo è per il dialogo. Con le altre donne vincitrici del premio Nobel abbiamo dato vita alla Women Nobel Iniziative, che ha sede ad Ottawa. Tra l’altro abbiamo organizzato un incontro tra 5 ong americane e 5 iraniane, a maggio in Austria. Per tre giorni hanno discusso di come ristabilire una comunicazione tra gli Usa e il mio Paese. Quando scoppia una guerra sono i figli del popolo ad essere uccisi, non i figli del presidente, ed è il popolo che paga le spese. Per questo sono i popoli che devono decidere della pace e della g uerra, e per questo i popoli devono parlarsi».
Da quando è diventato presidente Ahmadinejad, la situazione è migliorata o è peggiorata?
«La censura è più forte: molti siti internet sono filtrati, alcuni giornali sono stati chiusi, altri hanno subito attentati. Ed è strano che quando viene attaccato un giornale nessun colpevole venga mai arrestato».
Qualche settimana fa anche la sua Fondazione per i Diritti umani è stata dichiarata illegale.
«Ho creato il centro 6 anni fa con altri avvocati: offriamo il patrocinio gratuito ai prigionieri politici (che sono il 70% dei carcerati); aiutiamo le famiglie; ogni tre mesi presentiamo alla stampa alcuni casi particolarmente significativi. Ci hanno accusato di fare un’attività illegale perché la Fondazione non è registrata. Ma noi abbiamo tutti i requisiti: sono loro che non ci registrano, né ci danno un rifiuto scritto. Dunque, noi andiamo avanti, perché sono loro ad essere nell’illegalità».
Crede che il suo Paese voglia davvero continuare sulla strada del nucleare fino ad avere la bomba atomica?
«Non rappresento il governo, né conosco quello che si dicono a porte chiuse. So però che nessun Paese al mondo ha bisogno della bomba atomica, e che anzi bisognerebbe distruggere tutte quelle che ci sono, in Pakistan, in America, in Israele, ovunque siano».
Eppure, se su questo tema non si troverà un accordo, che per ora sembra lontano, si rischia un nuovo conflitto.
«Un attacco militare all’Iran avrebbe conseguenze gravissime su tutta la zona: non credo sia conveniente creare un altro Iraq. Le sanzioni economiche non distruggerebbero l’Iran, perché ha abbastanza petrolio per sopravvivere, e perché probabilmente Cina e Russia aggirerebbero le sanzioni. Pagherebbero solo i poveri, che diventerebbero ancora più poveri. C’è un’unica strada percorribile, ed è quella del dialogo».
Nel campo dei diritti delle donne, sono stati fatti passi avanti nel suo Paese?
«Le leggi devono andare d’accordo con la situazione sociale del Paese, e invece in Iraq sono rimaste indietro. Anche se il 65% degli studenti universitari sono donne, e perfino Ahmadinejad, che rappresenta i nostri integralisti, ha un vicepresidente donna, le leggi restano profondamente discriminatorie. La vita di una donna vale la metà di quella di un uomo, ed è ancora possibile per un uomo avere 4 mogli. Però c’è un movimento femminista molto forte, che negli ultimi anni ha ottenuto dei risultati, sul piano legislativo. Ma vogliamo molto di più. Abbiamo avviato una raccolta di firme per chiedere l’eliminazione di tutte le discriminazioni. Vogliamo raccoglierne un milione, di donne e di uomini, e andiamo a cercarle bussando porta a porta, e raggiungendo anche i villaggi più sperduti».
Dopo che le hanno conferito il Nobel, è più libera di lavorare?
«Recentemente mi hanno nuovamente minacciata di arresto. Vengo dall’America, dove giorni fa mi hanno conferito una laurea honoris causa. È la ventesima che ricevo, da Paesi europei, dall’Australia, dalla Turchia, dagli Usa. Ma quando mi hanno dato il Nobel, l’università dove mi sono laureata, a Teheran, ha proibito agli studenti di festeggiare. Lavorare per i diritti umani in Iran non è facile, ma non smetto».