Bijan Zarmandili è una persona mite, riflessiva, un professionista di grande valore. E’ nato a Teheran e si è trasferito a Roma nel 1960. Giornalista da oltre 20 anni si occupa del Medio Oriente per il gruppo Espresso-Repubblica e per molti anni è stato un’autorevole firma, tra gli altri, del quotidiano La Provincia di Cremona e Crema. E’ stato capo redattore esteri della rivista Astrolabio, la prestigiosa testata di Ferruccio Parri, ha collaborato a lungo con Politica internazionale.
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E’ il corrispondente per l’Iran della rivista di geopolitica Limes e
tiene una rubrica di analisi delle vicende iraniane e mediorientali per Rainews24.
Nel 1972 ha pubblicato Mondo iranico per la CEI e nel 1985, per la stessa casa editrice, la biografi a di Mohammed Mossadegh e dell’Ayatollah Khomeini.
Per le edizioni Rai ha pubblicato nel 1985 Documenti di un dirottamento sul caso Achille Lauro. La grande casa di Monirrieh, scritto in lingua italiana, ed è stato uno dei tre romanzi finalisti del premio di narrativa Fenice-Europa 2005.
Che dire, dopo aver terminato di leggere La grande casa di Monirrieh? Storia interessante, per molti versi singolare, costruita con finezza di stile e raccontata con intensa partecipazione emotiva, ma sempre abilmente temperata da una mente particolarmente riflessiva ed equilibrata. Storia al femminile, scritta nella nostra lingua da un eccellente narratore, che ci fa viaggiare in un mondo non poi così lontano dal nostro come normalmente si crede. Anzi, talora assai vicino a quella società maschilista, in auge da noi fino agli anni Sessanta, incrostata di valori e costumanze secolari dove le donne contavano poco o niente. Poi, in un batter d’ali, tutto cambiò radicalmente. Forza della democrazia, voglia di lasciarsi il passato alle spalle dopo una tragica sconfitta, chissà? Sta di fatto che questo processo di emancipazione femminile in Iran è ancora ai primi passi. Cosa ne pensa lei, Bijan Zarmandili, giornalista e scrittore dalla complessa nazionalità, persiana e italiana insieme, alla luce della sua straordinaria esperienza umana e professionale che, a un certo punto, l’ha fatta approdare nel nostro belpaese, pur sempre in qualche modo levantino, nell’ormai lontano 1960?

Non è facile rispondere a questa domanda e non peccare di presunzione o di superficialità. Penso però che il processo di emancipazione femminile oggi in atto in Iran e in diversi paesi islamici sia per molti aspetti diverso dalla storia delle lotte delle donne nei paesi occidentali. Certo, ci sono delle innegabili analogie, ma anche delle profonde differenze. Nei paesi occidentali le donne sono dei soggetti politici riconosciuti e le loro rivendicazioni sono spesso tese a consolidare e a far progredire i diritti acquisiti; nel mondo islamico invece le donne sono soltanto ora la parte essenziale di un processo di democratizzazione che comprende l’intera società. Esiste poi una differenza sostanziale tra l’immagine della donna nell’Occidente-cristiano e nell’Oriente-islamico, che risale a alcune considerazioni arcaiche e di carattere religioso: l’archetipo femminile cristiano è Maria, la madre di Dio. Dunque, una figura materna, mentre l’emblema femminile in Islam resta Fatemeh-Zahra, la figlia del Profeta, quindi, figura sottomessa e da proteggere. Sarebbe interessante valutare il travaglio, le lotte delle donne musulmane da questo punto di vista. Zahra, la protagonista del romanzo "La grande casa di Monirrieh", si rifiuta infatti di essere considerata "figlia" e la sua ribellione segna tragicamente la sua intera vita.

La bellissima Zahra rappresenta forse, nel suo immaginario letterario, il punto di crisi di una società che deve, per forza o per amore, abbandonare la tradizione, per gettarsi, tra mille contraddizioni e vincoli millenari difficili da superare, verso l’incognita più o meno affascinante e sofferta costituita da un forzoso trapasso alla ‘modernità’, poi bloccato dal fuoco della rivoluzione islamica. Un fuoco che la sua eroina userà su di sé per purificarsi e confusamente ribellarsi?



Il fuoco ha un valore peculiare nella cultura persiana. Il culto del fuoco risale in Iran al periodo pre-islamico e alla civiltà zoroastriana. Dandosi fuoco, Zahra vuole purificarsi e tornare alle radici della propria tragedia. Non è un atto di ribellione: è una sorta di cerimonia religiosa, un rito antico che Zahra rivive per fuggire dalle sue colpe.

Come spiega la messa in crisi del regime dello shah Reza Palevi con il ritorno dell’ayatollah Komeini, il cauto processo di occidentalizzazione in atto che di fatto ignora le impostazioni socio-politiche della Repubblica islamica e, al contempo, la sorprendente vittoria del pasdaran Mahmoud Ahmadinejad. Ci sono due Iran che viaggiano in opposte direzioni? C’è il rischio di uno scontro civile dagli esiti incerti?



A quanto pare, non sempre è possibile interpretare gli avvenimenti sociali e politici in Iran con gli argomenti razionali di cui disponiamo. All’origine della rivoluzione khomeinista non c’era opposizione alla modernità, ma all’occidentalizzazione forzata del paese, imposta dalla dinastia Pahlavi. Nel corso degli ultimi 25 anni, il regime teocratico nato da quella rivoluzione ha conosciuto diverse fasi, trasformandosi progressivamente da un movimento di liberazione dalla dittatura monarchica, in un nuova dittatura basata questa volta sulla supremazia dell’aristocrazia sciita, gli ayatollah; e ancora, in un regime in crisi che ha cercato di riformarsi (con Khatami), fallendo però l’obbiettivo e cadendo di nuovo nelle mani delle forze più regressive che la teocrazia abbia prodotto, cioè, nelle mani dei paramilitari e integralisti. Non saprei se il futuro ci riserva una guerra civile in Iran, una nuova rivoluzione, oppure un attacco militare americano. Di certo si sa che tutte le contraddizioni e i conflitti sono ora drammaticamente esasperati.

Il senso di ribellione passiva insito nell’atto di molti giovani e donne di disertare le elezioni (forse un grave errore), non è lo stesso che muove anche la protagonista del suo romanzo?


La ribellione di Zahra non è passiva, non è politica e non è ideologica. Caso mai si potrebbe considerare la sua una ribellione istintiva, viscerale, spontanea. Zahra è una figura femminile universale: sono la società in cui ha vissuto, il suo ambiente famigliare, le regole del clan familiare del marito e la religione a renderla una "diversa", ribelle.

Il marito di Zahra è un imprenditore cinematografico. Sembra quasi che il riscatto delle donne debba entrare in Iran attraverso il volto truccato delle dive. E non solo.


Il marito di Zahra è un personaggio assai simile alla protagonista del romanzo. Zahra e suo marito si assomigliano, hanno le stesse angosce esistenziali e sono ambedue vittime di incomprensioni. Il cinema, amato sia da Zahra che da suo marito, è l’emblema della modernità in una società arcaica e fortemente religiosa e sottolinea la loro diversità rispetto agli altri.

Rudyard Kipling scriveva: "L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e i due mai s’incontreranno".


Credo che abbia ragione Edward W. Said, dicendo che l’Oriente, l’orientalismo, è una invenzione degli occidentali: meglio evitare le categorie astratte e guardare le donne e gli uomini nella loro immensa ricchezza culturale, ovunque siano.

Il teatro del suo prossimo romanzo sarà sempre la terra dei padri?



Il teatro del mio nuovo romanzo è l’Italia del dopoguerra, degli anni del boom economico e della contestazione giovanile, vista con gli occhi di giovani iraniani, che tornano nel loro paese, dove li attende una tragica sorte.