null
LE LETTURE PERSIANE/ CON GLI OCCHI DELL’ ISLAM
Di GIANNI CAROLI
Costituiscono due letture da non perdere i due libri “orientali” da poco apparsi sugli scaffali, da leggere incrociandoli: “Le Letture persiane” di Amir Madani (Edizioni Associate), e “Con gli occhi dell’ Islam”, di Sergio Romano (Mondatori Editore).



Entrambi si intitolano nel citare un archetipo: “Le Lettere Persiane” di Montesquieu è un caposaldo settecentesco del rapporto, di natura profondamente colta ed intellettuale prima d’ ogni altro scambio mercantile, tra Persia ed Europa, Francia dei lumi nella fattispecie; mentre il secondo ricorda, per inversione, un famoso romanzo di Joseph Conrad, “Sotto gli occhi dell’ Occidente”.

Entrambi assumono ad evento centrale della moderna storia “Occi-rientale” un fatto capitale: la destituzione, con successiva condanna a morte poi commutata in carcere, del Primo Ministro iraniano Mossadeq, al servizio del giovanissimo Shah Reza Pahlavi, che nazionalizzò l’ industria petrolifera di quel paese, nel lontano 1953, così provocando la reazione anglo-americana. Fu il nipote di Franklin Delano Roosevelt, il caposcalo della CIA a Tehran, a organizzare su due piedi, lungimirante di illimitata cecità politica, il colpo di Stato che mise in minoranza in Parlamento, tramite il solito “acquisto-deputati”, il coraggioso Premier, costringendolo a dimettersi. La complicità dell’ avventuriero asceso al ruolo imperiale, figlio di un bandito cosacco, Reza Khan, casualmente impadronitosi del glorioso trono di Ciro nel 1921 con l’ appoggio inglese in funzione antirussa, fu essenziale ed esiziale; per lo stesso Shah traditore come per gli USA, da allora in pratica entrambi “espulsi” dall’ Iran, come avvenne concretamente nel 1979, seppure con sentenza differita nel tempo.

Il perfetto pendant di questo accadimento avviene poi in Egitto, con la nazionalizzazione, nel luglio del 1956 e la fallita invasione anglo-francese del successivo ottobre, del Canale di Suez da parte del giovane Nasser e dei suoi sodali nel Giovane Egitto della élite militare.

Tutti allevati nel culto della Nazione Araba tradita dagli inglesi dopo la Prima Guerra Mondiale ( vedi alla voce “Lawrence d’ Arabia”, il celebre film dell’ irlandese David Lean), e dal panarabismo “colto” di Michel Aflaq, il poderoso pensatore siriano di formazione cattolica-caldea che tanto influenza fin dagli Anni Trenta i movimenti tutti della tormentata regione: persistendo perfino, la impostazione laica che egli diede alla Rinascita (Baath’), sotto mentite spoglie islamo-integraliste della cronaca odierna.

Su questo terreno vengono totalmente a collimare gli autori dei due solidi regesti di analisi strategiche, ciascuna separata dall’ altra capitolo per capitolo, seppure di diversa formazione: che Amir Madani è un intellettuale irànico, oltre che moderno iraniano, di formazione solidamente liberale; per quanto un diplomatico come Sergio Romano sia piuttosto un diplomatico di scuola “realista”.

Entrambi tuttavia registrano all’ unisono il fallimento attuale delle strategie USA-neo.con, basate sull’ esportazione unilaterale dell’ Unico Modello totaliberista per mezzo della guerra permanente; e in tutto l’ arco geopolitico del Grande Gioco, che è l’ oggetto vero di ambo le analisi, dal Pakistan all’ Iraq.

E se Romano fa identificare, nella sua analisi, l’ odierno imperialismo anglo-americano con le passate vesti dell’ Impero Ottomano di cento anni fa, perché questa è la situazione nella quale le due superpotenze atlantiche si vengono attualmente a trovare; Madani recrimina, da amico sincero dell’ America liberal, come dell’ Europa democratica dove pur si è formato, su quanto nuoccia al legame di amicizia tra l’ Occidente e i popoli dell’ Oriente Vicino la stolta identificazione che inchioda gli americani nel vano ruolo di “gendarme” dei possedimenti ex-britannici “ad est di Suez”.

Un neo-churchillismo ugualmente fallimentare, e senza altro sbocco che non sia eterna inimicizia verso quelle popolazioni, e quanto intensamente ricambiata dicono i fatti.

Che suonano condanna dell’ insuccesso che sprofonda, con l’ America, l’ Europa intera aggiogata a quel carro, per quanto ostile la sua opinione pubblica ed i suoi sentimenti, e i suoi legami, antichi e profondissimi, con l’ altipiano atavico.

Quello indo-irànico e pre-islamico sul quale Madani esercita la sua rivendicazione orginaria: la Persia antica fu terra di scambi tra le Indie e l’ Europa dai tempi più remoti, e culla di profeti e di detti iniziatici; segreti che tanto hanno improntato le aristocrazie filosofiche e teologiche dell’ Occidente più mediterraneo.

Da Mitra a Zoroastro, da Mani a Rumi, il sottile e tenace, come tela di un ragno, pensiero religioso che colà si dipana, pervade da millenni l’ Europa tutta, entrandovi in antico dalla porta di Bisanzio, per conquistare i Balcani: un fenomeno che certo lasciò per sempre da parte le rozze e primitive isole britanniche, del tutto estranee, nel loro pragmatismo bottegaio, a quel fermento tipicamente illuminista e cosmpolita che lo muove tuttora.

Divenendo esso archetipo, da Montesquieu a Voltaire, di somma Civiltà della Tolleranza e del Pensiero Libero, a fronte di un Continente ancora immerso nella barbarie, e poi nel feudalesimo retrivo, come l’ Europa fu ancora nel secolo XVIII dell’ Assolutismo monarchico. Per non parlare neppure, perché “de minimis non curat praetor”, della pirateria più barbarica e criminale degli inglesi: un permanente attentato, allora come oggi, contro la libertà di commercio e gli scambi marittimi fra popoli e culture, ormai da troppi secoli.

Del tutto legittima dunque, la rivendicazione di una “natura” persiana e irànica, ancor più che iraniana, dunque del tutto autonoma dalla successiva islamizzazione forzata, portata dall’ esterno, che quella regione subì: tuttavia conservando, nella sua adesione alla “sh’ya”, i presupposti di una totale indipendenza dall’ integralismo della Sunna tradizionale.

Sul terreno dei “detti segreti” del Profeta ai seguaci, che della stessa “sh’ya” costituiscono materia eletta a differenza della religione del Libro “Evidente” (cioè Il Corano per la Sunna ), viene a costituirsi nei secoli, di fatto, una vera e propria “secessione” dal panarabismo: spuntano in Persia, sul fecondo terreno che fu dei maestri più antichi, le sette “sufi”, improntate ad un affascinante sincretismo post-religioso e post-monoteista.

La Eterna Sintesi , tra ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, e persino il buddismo più “moderno”: con Schopenauer, Wagner ne ostende il frutto nelle sue tarde opere, dal Tristano al Parsifal; dovendo ricercarsi proprio nella atavica Persia le radici del racconto fondamentale, le “Mille e una Notte” di Shérahzad e Harun ‘r Rach’d, in una Bagdad abbàside fortemente impregnata di quella mistica così insinuante che la splendente capitale improntava da secoli e secoli.

Ove si pensi al ruolo modernissimo che il sufismo giocò, or’ è cent’ anni, nel propiziare la nascita, lo sviluppo e il successo del movimento laico-kemalista dei Giovani Turchi, prototipo di ogni nazionalismo anti-feudale successivo come quello di Nasser vittorioso, si comprende bene la sostanza fattuale di quel primato; che oggi certo appiattisce la prospettiva, così limitata e modesta all’ ingenua fanàsi dei mostazzafin assunti a testimoni di verità, dell’ integralismo fondamentalista al potere a Tehran.

E la naturale ambizione, per l’ iraniano colto, come per ogni interlocutore europeo, di andare oltre uno stato delle cose che così tanto mortifica ed ottunde la scintillante ricchezza della sua eredità. Che è anche la nostra.

GIANNI CAROLI